Il film della settimana - 21 marzo 2019

Sofia

a cura di Roberto Roversi, presidente nazionale Ucca

Quando esce un film distribuito da Cineclub Internazionale, non perdetelo. Perché Paolo Minuto, che della distribuzione è il deus ex machina, ha la capacità innata di scegliere eccellenti opere passate ai grandi festival internazionali, che coniugano temi etici e politici di stringente attualità a doti registiche non comuni.
La magia si ripete per Sofia, opera prima di Meryem Benm’Barek, premiata al Festival di Cannes 2018 per la migliore sceneggiatura della sezione Un Certain Regard.
La vicenda di una ragazza marocchina che, dopo aver nascosto la sua gravidanza, deve affrontare la legge del suo Paese che prevede la condanna fino ad un anno di carcere per chi ha rapporti sessuali fuori dal matrimonio, diventa lo spunto per allargare lo sguardo alla condizione della donna, al classismo di una società incline al compromesso, alla violenza domestica, a scelte di vita dettate unicamente da ipocrisia e interessi familiari.
Un thriller sociale che diventa un’osservazione sociologica sul Marocco di oggi, con uno stile che ricorda Farhadi, Ceylan e Mungiu, non a caso i numi tutelari della giovane autrice.

Il film della settimana - 28 marzo 2019

Borders. Creature di confine

a cura di Letizia Lucangeli, Consiglio nazionale Ucca

Il cinema scandinavo, pur nell’asciuttezza e nel realismo che lo contraddistinguono, ha sempre riservato un angolo alla fiaba, che per sua stessa natura contiene inquietudine e paura dell’ignoto e pone interrogativi abissali e universali. Non avrebbe potuto essere diversamente, d’altronde, nelle terre di nascita dell’esistenzialismo filosofico.
La storia delle due creature che animano la narrazione è una tenebrosa fiaba nordica contemporanea, che fa i conti con la solitudine, la diversità e il dolore cui la stessa diversità conduce, in una terra silenziosa e rarefatta dalla luce splendida e cupa, dove la natura invade gli spazi fisici degli esseri viventi e i rapporti umani si riducono a poche parole nette e taglienti, spesso senza calore, e dove, dietro l’apparente alto livello di civiltà e di tutela dei più indifesi, si nascondono mostri.

Il film della settimana - 4 aprile 2019

Beautiful Things

a cura di Valeria Verbaro, caporedattrice Opereprime.org

Realizzato nell’ambito della Biennale College Cinema 2016e presentato alla 74ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Beautiful Things di Giorgio Ferrero è probabilmente il film italiano più complesso e meno classificabile che si vedrà prossimamente in sala. Nasce come documentario in quattro capitoli che racconta la ‘bulimia del nostro stile di vita’ consumistico, per citare la sinossi ufficiale. Impreziosito dalla fotografia iperrealistica di Federico Biasin, tuttavia, si trasforma ben presto anche in un’ipnotica riflessione sull’isolamento e l’introspezione dei quattro uomini protagonisti. La bellezza delle immagini e il continuo tappeto sonoro di rumori, canti e silenzi densi di significati raccontano una storia profondamente umana, in cui le rispettive solitudini di un petroliere italo-texano, di un marinaio sui cargo, di un ingegnere del suono e di un addetto allo smaltimento dei rifiuti trovano un punto di contatto proprio negli oggetti inanimati, del cui ciclo di produzione e consumo essi sono i veri cerimonieri.

Lo (s)consiglio della settimana - 11 aprile 2019

Cafarnao

a cura di Sabrina Milani, coordinatrice Ucca

É in un’aula di tribunale di Beirut che si apre il lungometraggio di Nadine Labaki, Premio della Giuria al 71° Festival di Cannes, dove Zain, un ragazzino di 12 anni, si presenta davanti a un giudice.
«Perché stai facendo causa ai tuoi genitori?», gli chiede la corte.
«Per avermi fatto nascere», risponde Zain. Nasce così la narrazione frenetica degli eventi di Cafarnao, città della Galilea di biblica memoria, divenuta simbolo del caos dove lo sguardo della Labaki segue il bambino attraverso gli slums della città ed i suoi orrori, le baraccopoli, i bambini che crescono in mezzo alla strada, maltrattati anche dai propri genitori, la sposa-bambina, il carcere minorile, l’immigrazione clandestina, il sogno di raggiungere l’Europa, il traffico di neonati.
In un paio d’ore si affollano davanti ai nostri occhi discriminazione, sfruttamento, povertà e abbandoni contrastati sapientemente da un’estetica marcata che segna una distanza siderale con quanto si vede sullo schermo.
Un film che vive di stridenti contrasti, forte nei contenuti ma troppo spesso mirato a ricercare la commozione in maniera meccanica e ricattatoria, sorretto da una regia controllatissima che si concede soluzioni da grande produzione festivaliera e forse chissà hollywoodiana.

Il film della settimana - 18 aprile 2019

The cleaners

a cura di Valeria Verbaro, caporedattrice Opereprime.org

The Cleaners – Quello che i social non dicono è una vera e propria inchiesta giornalistica, iniziata nel modo più cinematografico possibile: una soffiata interna. Grazie a un’email inviata all’etichetta Loakoon, i registi Hans Block e Moritz Riesewieck hanno così deciso di approfondire il lato oscuro dei social network, rivelando al mondo l’esistenza di migliaia di content moderatorche, al posto di esperti di privacy o algoritmi, selezionano ed eliminano i contenuti più pericolosi dalle piattaforme social. Violenza, terrorismo, pornografia: ogni dipendente revisiona oltre 25000 immagini e video al giorno, non senza conseguenze per la propria salute mentale. Sottopagati e sfruttati, quasi tutti questi moderatori lavorano per aziende statunitensi, ma vengono scelti nelle Filippine. Si fa qui dunque breve il passo dall’inchiesta all’aperta critica socio-politica. Attraverso testimonianze di content moderator filippini, ingegneri della Silicon Valley e alcuni ‘censurati eccellenti’, come artisti e attivisti, Block e Riesewieck denunciano la facilità con cui è possibile manipolare il diritto alla libera espressione, soprattutto quando, come nel caso dei social network, rimangono ancora pericolose zone d’ombra.

Il film della settimana - 28 marzo 2019

Normal

a cura di Lorenzo Carangelo, Consiglio nazionale Ucca

Debutta oggi nelle sale Normal, dopo la presentazione di febbraio al Festival Internazionale del Cinema di Berlino – sezione Panorama – e dopo il passaggio della scorsa settimana al Lovers Film Festival di Torino, in cui ha raccolto il primo premio del concorso internazionale di documentari Real Lovers e il premio Ucca.
Il primo lungometraggio della regista Adele Tulli è un catalogo di scene di vita quotidiana gender correlate: ginnastica prenatale, orecchini, motociclette, ferri da stiro giocattolo si alternano a improbabili corsi di virilità o a corsi prematrimoniali in cui il ‘mito stupido dell’innocenza’ viene declinato al maschile.
Il film, nel complesso, è un ottimo lavoro di sottrazione: i singoli elementi espressivi si susseguono secondo un crescendo concettuale attentamente selezionato.
La tecnica del documentario è usata con cura, il tema di fondo dell’identità di genere viene presentato con l’apparente distacco di una semplicità che lascia trasparire attenzione scrupolosa: il montaggio restituisce un’estetica elegante, disciplinata, fatta di inquadrature fisse in aperto contrasto con la colonna sonora, quasi ad indurre uno smarrimento di cui lo spettatore accorto soffre già dalla seconda scena.
Normal è un film utile, non autoreferenziale, che risponde all’intento dichiarato di proporre punti di vista critici senza suggerire soluzioni, senza cedere alla tentazione di sottolineare chiavi di lettura. É lo specchio per nulla deformato di una società che ha bisogno di riflettere, di dialogare, di raccontare le diverse sfumature, a tratti inquietanti, dell’ordinarietà.

Il consiglio della settimana - 23 maggio 2019

Bangla

a cura di Camilla Di Spirito, Opereprime.org

Bangla è il vivace e pungente esordio di Phaim Bhuiyan, regista classe 1995.
Tutto parte da una puntata del programma Rai Nemo, intitolata L’amore di seconda generazione, che aveva per protagonista proprio Phaim, intento a raccontare ostacoli e difficoltà personali nel suo rapporto con le ragazze. Nasce, quindi, Bangla, opera prima fortemente autobiografica, nella quale Phaim racconta di sé, definendosi «50% Bangla, 50% Italia e 100% Torpigna».
Il suo quartiere, infatti, la multietnica Torpignattara, è un mondo parallelo in cui hipster, anziani e stranieri (definiti, ironicamente, «tutti quelli che non sono romani da almeno sette generazioni») s’incontrano e convivono.
Phaim lavora come steward in un museo; la sua famiglia è formata da una madre estremamente conservatrice, da un padre di una bonarietà al limite del menefreghismo e da una sorella scontrosa, in procinto di sposarsi.
Phaim vive completamente immerso nella sua realtà, tra abitudini e insofferenze, fino al giorno in cui incontra in un locale Asia, studentessa di Roma Nord. È subito colpo di fulmine, immediatamente ricambiato. Ma Phaim è combattuto. La sua religione gli vieta tassativamente di avere rapporti sessuali prima del matrimonio e la sua famiglia non vede di buon occhio i matrimoni misti. Giorno dopo giorno, però, Phaim si convince sempre più di aver finalmente incontrato l’amore.
Giocando con gli stereotipi in una sceneggiatura senza peli sulla lingua, Bangla colpisce nel segno e fa emergere forte e chiara la necessità di un confronto innanzitutto generazionale, tra genitori e figli, ma anche sociale. Il tutto sostenuto da una regia dinamica e con la giusta inventiva.

Il consiglio della settimana - 6 giugno 2019

Selfie

a cura di Carlo Testini, UCCA nazionale

Nell’estate del 2014 un carabiniere, scambiandolo per un latitante o preso dal panico per la situazione complicata nella quale si trova, uccide il sedicenne Davide Bifolco. Una delle tante brutte storie di cronaca di una Napoli attraversata da mille contraddizioni. Siamo al Rione Traiano, una periferia come ce ne sono tante. Difficile, anzi difficilissima. Alessandro e Pietro sono due coetanei e amici di Davide che accettano di riprendersi con l’iphone, filmando la loro vita nel rione, il loro lavoro (quando c’è), le loro amicizie. Dopo un primo momento di spaesamento per l’artificio filmico e per la crudezza della storia, si entra in un mondo di ‘sentimenti’. Si è avvolti da un’incomprensibile tenerezza per questi ragazzi che sfrecciano in motorino portando il caffè o si ritrovano con altri che ostentano pistole nelle strade sfasciate della città. Un racconto che non ha nessuna pretesa di contrastare lo stereotipo della periferia deprimente di questa città meravigliosa, ma ti attraversa e ti coinvolge a tal punto da voler prendere il treno e andare ad abbracciare questi scugnizzi degli anni zero, uno per uno.
Un montaggio sapiente di scene, sporcate dall’inesperienza dei ragazzi-registi-attori, fa di questo film un piccolo capolavoro. È vero, si parla di Napoli, ma è come si parlasse del mondo intero.

Il consiglio della settimana - 13 GIUGNO 2019

American Animals

a cura di Roberto Roversi, presidente nazionale Ucca

Spencer e Warren, due amici cresciuti nel Kentucky, studiano all’università locale ma vogliono dare una svolta alla loro vita e per farlo sono pronti a tutto. Il loro obiettivo diventa rubare un rarissimo libro antico, che malgrado l’enorme valore viene custodito nella biblioteca universitaria senza particolari misure di sicurezza. Reclutati altri due compagni, iniziano a programmare il colpo fino agli ultimi dettagli, ma li attende una serie di rocamboleschi imprevisti…
Quante volte ci è capitato di vedere al cinema la storia di una rapina finita male? Qualcosa va storto anche nel bel film di Layton, presentato in anteprima al Sundance e ora nelle sale italiane grazie a Teodora.
Ma sono proprio la formazione e il profilo del regista a rendere l’opera originale e inclassificabile: Layton è l’autore del celebrato The Imposter, che nel 2012 ha imperversato nel circuito dei festival internazionali, finendo persino shortlisted per l’Oscar quale miglior documentario.
Layton mescola abilmente realtà e finzione in un film che rinnova il genere spingendolo verso direzioni impreviste e coinvolgendo il pubblico in una vicenda dal ritmo serratissimo e ricca di momenti di pura adrenalina, per poi trasformarsi in una sobria riflessione sui privilegi dei giovani maschi americani.
Anche le citazioni non sono mai un gioco fine a se stesso, che sia un dialogo preso da Reservoir Dogs o un’inquadratura fotocopiata da Goodfellas, rimandando piuttosto all’arrogante inesperienza dei protagonisti.
Infine, una nota di merito per un cast affiatatissimo, tra cui spicca Barry Keoghan, già protagonista di Dunkirk e The Killing of a Sacred Deer e la cui fama è destinata ad accrescersi con la messa in onda, proprio in questi giorni, della miniserie HBO Chernobyl.

Il consiglio della settimana - 27 giugno 2019

DicKtatorship

a cura di Ivan Notarangelo, Ufficio stampa Arci nazionale

«È proprio una donna con le palle». Un’espressione usata molte volte, per esprimere una donna dotata di quella forza che per ‘natura’ è riconosciuta all’uomo.
Ma gli esempi sono numerosi, tutti basati sugli stereotipi del maschile e del femminile. Dal 10 giugno nelle sale (poche) è arrivato DICkTATORSHIP – Fallo e Basta! il docufilm di Gustav Hofer e Luca Ragazzi che indaga su come sia diffuso il maschilismo e quanta fatica debbano fare le donne per farsi largo. Già registi di Improvvisamente l’estate scorsa sul tema dell’omofobia, What is Left? sulla crisi della sinistra e Italy: love it or leave it, sulla fuga dei giovani dal Bel Paese, Hofer e Ragazzi si muovono sui temi progressisti con sapiente e sagace abilità sia nella scrittura che nella regia. Ma tornando al tema del loro ultimo lavoro, una domanda posta in diverse proiezioni con i registi è stata: perché due uomini discutono su un tema di genere? La risposta sta nella frase detta di uno degli intervistati nel film: «Chi vive con un privilegio non se ne accorge, al contrario chi subisce una discriminazione impara presto a lottare». Ecco, chi subisce discriminazioni, sia sull’orientamento sessuale che sul genere, sviluppa più facilmente un’empatia non solo per la propria condizione, ma per chiunque lotti per affermare la propria esistenza. La coppia, Gustav e Luca, si mette in discussione di fronte agli stereotipi maschilisti e sessisti, dimostrando attraverso incontri e racconti quanto siano diffusi in ogni condizione sociale. Un film da vedere, perché il ritmo e i dialoghi sono ben costruiti, per quanto forse – come spesso capita sui lavori a tesi – a volte risulti un po’ compiaciuto e prevedibile.
Però rappresenta un tassello di un lavoro culturale che durerà molti altri anni.

Il consiglio della settimana - 4 luglio 2019

La mia vita con John F. Donovan

a cura di Ufficio stampa Arci nazionale

Il primo film americano dell’enfant prodige del cinema, Xavier Dolan, 30 anni e già 8 titoli strepitosi al suo attivo, ci è piaciuto pur con tutti i suoi (evidenti) difetti.
È un film che bisogna un po’ scovarlo, dietro ad una sceneggiatura dalla struttura inutilmente complessa, dietro a scene melodrammatiche e a tratti perfino prevedibili, ma La mia vita con John F. Donovan regala scene meravigliose tutte di Jacob Tremblay, l’attore bambino scoperto in Room che qui dimostra un vero talento.
Le musiche sono belle, i dialoghi sovrabbondanti, salti avanti e indietro nel tempo, scene madri che nei film precedenti bruciavano per verità umana in questo sono un po’ didascaliche. La chiave di lettura del film risiede nella sua trama e delle sue assonanze con la vita dello stesso Xavier Dolan: Rupert Turner è un ragazzino di 11 anni, il cui sogno di diventare un attore è alimentato da un’amicizia epistolare e segreta con la star televisiva John F. Donovan.
Nota la famosa lettera a Di Caprio che Dolan scrisse quando aveva solo 8 anni. Alla fine a penalizzare maggiormente il film è lo stesso cast internazionale. Con tutti i difetti, anche in questo lavoro emerge il genio del regista.

Il consiglio della settimana - 25 GIUGNO 2019

L’Angelo del crimine

a cura di Ivan Notarangelo, Ufficio stampa Arci nazionale

L’Angelo del crimine, film diretto da Luis Ortega, prodotto da Pedro Almodovar, ripercorre la storia di Carlos Robledo Puch, un 17enne che nella Buenos Aires dei primi anni ’70 si macchiò di 11 omicidi prima di essere arrestato.
Privo di ogni reazione emotiva, l’adolescente portava avanti una doppia vita: quella di un ragazzo figlio di una famiglia amorevole e accudente e quella di freddo criminale senza sensi di colpa. Il film si sviluppa tutto su questo contrasto, a cui si aggiunge un tensione erotica con Ramon, il compagno di classe di Carlos, lo stesso che gli consente il salto di qualità nella scala del crimine, dai furti nelle case alla mano armata più cruenta.
Osannato da buona parte della critica (ha vinto il premio Un Certain Regard a Cannes 2018) e premiato al box office in Argentina, L’angelo del crimine è un film che funziona, ottima la musica e il protagonista (l’esordiente Lorenzo Ferro) perfetto nel ruolo, unica nota che si indugia sull’estetismo del personaggio.
Carlos fu un caso nell’Argentina di quegli anni, confuse l’opinione pubblica per il suo aspetto e la sua estrazione sociale ed attualmente rappresenta il prigioniero più longevo nella storia del Paese sud americano con i suoi 46 anni di detenzione.